L’industria, il lavoro 4.0

Da quando la discussione sull’industria 4.0 è uscita da laboratori di ricerca e workshop di categoria per occupare un posto nel dibattito pubblico – dibattito accelerato in Italia dal varo del Piano Calenda – la sua tematizzazione ha fatto leva su sei chiavi di lettura: tecnologica (indubbiamente ricca di fascino), politica (benchmark sulle diverse politiche nazionali e discussione sul ritardo italiano), economica (ragionamento sui modelli sui business delle imprese), sociale (gli effetti sul mercato del lavoro), organizzativa (revisione del modello gestionale delle imprese e della concezione stessa dell’impresa come agente sociale), culturale (l’educazione delle giovani e vecchie generazioni, l’atteggiamento verso la rivoluzione digitale).

Dopo la semplificazione narrativa del primo periodo, insomma, l’industria 4.0 ha iniziato a rivelare complessità e sfaccettature. Il fenomeno è del resto estremamente complesso, e richiede un trattamento multiforme e multidisciplinare: accanto a chi ha mantenuto l’attenzione sulla centralità della tecnologia – dalla quale, comunque, ogni altro tassello dipende – c’è chi ha messo a fuoco anche l’innovazione organizzativa, per molti all’interno delle imprese il campo dove si gioca la partita più importante. Secondo questa linea, il problema non è solo avere  buoni ingegneri e qualche progettista molto intelligente, ma nuove forme organizzative in grado di apprendere, fare sperimentazioni collettive, sbagliare e correggersi, acquisire velocemente nuove competenze. In sostanza, la curvatura del tema in chiave sociale e organizzativa, non è un lato secondario, sia perché riguarda l’asset aziendale più difficile da maneggiare (l’uomo) sia perché non esistono ancora modelli di riferimento di provata utilità, mappe e bussole per la navigazione in un ambiente aziendale che si suppone diverso dal passato, anche se nessuno sa realmente in che senso.

In definitiva, centrare l’attenzione sui miglioramenti locali e la gestione degli impatti sono modalità tipiche del Novecento, hanno una razionalità legata alle caratteristiche delle tecnologie dell’epoca (macchinari automatizzati per fasi di lavoro in sequenza) e dei relativi sistemi organizzativi (stabili e strutturati, con mansioni codificate e rigidità gerarchica). Ma se i mercati attuali richiedono al sistema produttivo adattabilità e intelligenza, è centrale l’ibrido persona-tecnologia: questa dovrà conoscere le macchine; quelle sapere imparare dalle persone.

Come opera concretamente la tecnologia 4.0? Consente di affrontare in modo nuovo alcuni nodi dell’organizzazione aziendale: tende il flusso fra dipartimenti e fasi di lavorazione; riduce gli sprechi favorendo una logistica estrema; raccoglie informazioni dal processo, le rielabora in tempo reale, le reimmette nel processo consentendo modifiche in corsa; anticipa errori di progettazione e colli di bottiglia grazie alla virtualizzazione dei processi; risparmia energia e spazio, progettando luoghi di lavoro in modo diverso dal passato; “ricentra” il contributo dell’uomo nel meccanismo di produzione, mettendo in campo non soltanto le competenze del lavoratore, ma la sua stessa soggettività, individualità e umanità. Quali effetti sull’impresa? Chi visita le organizzazioni che attivano modelli di produzione intelligente si accorge che il cambiamento non segue regole prestabilite. Natura e portata della trasformazione dipendono da molti fattori: la storia dell’impresa, la dimensione, la cultura manageriale, il mercato, il settore, la qualità del capitale umano disponibile. 

Da ultimo, come si comportano i governi e quali politiche mettono in campo? L’industria 4.0 deve affermarsi in Italia in un contesto fatto di aziende piccole, scarsamente capitalizzate e storicamente poco avvezze a investire in innovazione. Come messo in chiaro fra le precondizioni del Piano Nazionale Impresa 4.0, l’orizzonte industriale italiano è definito da una obsolescenza nel parco macchine, investimenti di bassa qualità e azioni tese a estendere la capacità produttiva piuttosto che a recuperare efficienza e produttività; indisponibilità della connessione adeguata per il 70% delle imprese; ridotta disponibilità di competenze nelle discipline STEM (14 laureati su 1000) e formazione professionale poco suadente; buona qualità della ricerca, ma infrastrutture di trasferimento tecnologico frammentate; forte know-how della manifattura e qualità del Made in Italy ma scarsa propensione culturale al digitale (25a su 28 paesi Ue nel monitor dell’economia e delle società digitali); pochi grandi player industriali e ICT in grado di guidare la trasformazione della manifattura, limitato numero di capifiliera in grado di coordinare il processo evolutivo e di integrazione delle catene del valore a fronte di un sistema industriale basato su PMI che potrebbero beneficare del salto di produttività. La descrizione impietosa di un’arretratezza che coinvolge anche il settore aerospaziale, dove il ruolo delle PMI nella catena del valore è tutt’altro che secondario.

Non sono disponibili dati estensivi sull’adattamento culturale delle imprese italiane al paradigma 4.0. I dati ufficiali riferibili al successo degli incentivi fiscali mostrano un mondo industriale nel quale 4.0 ha significato essenzialmente automazione, ma le osservazioni sul campo svolte da centri di ricerca socio-economici mostrano segnali diversi. Si moltiplicano (pur restando pochi) i casi di aziende attive in mercati maturi e poveri, per esempio nella componentistica automotive o nella minuteria metallica, che hanno sviluppato modelli di automazione ad alto impatto digitale, gestiti da piattaforme virtuali per la regolazione del processo, capaci di generare dati utilizzabili per migliorare il processo e rivedere i prodotti.

Ogni piano nazionale è figlio del contesto in cui nasce. La celebrata piattaforma tedesca Industrie 4.0, che già nel 2016 dichiarava di aver coinvolto nel cambio di paradigma il 25% delle PMI nazionali, e che ha ritenuto di integrare nella governance della piattaforma federale l’IG Metal, può contare su una cultura politica sorretta da patti di medio termine e politiche stabili oltre che ben finanziate anche a livello locale. In Francia, il progetto Usine du Future partito nel 2015 per prima cosa ha elaborato un piano nazionale selezionando le leve strategiche e gli ambiti di intervento considerati qualificanti per l’industria francese. Fra queste, largo spazio è dato al problema della formazione del capitale umano al modello cosiddetto di open innovation, che favorisce il matching fra imprese e start-up come leva per introdurre innovazione disruptive in aziende troppo consolidate e tradizionaliste per maturare innovazione al proprio interno. In Inghilterra, il progetto High Value Manufacturing Catapult, nato nel 2009 come risposta alla crisi globale e in seguito riadattato, è una politica industriale che ha avuto fin da subito lo scopo di riportare l’attenzione sulla manifattura, lasciata ai margini da due decenni. Il piano è portato materialmente avanti da una famiglia di centri di eccellenza – in parte pubblici, in parte privati – coordinati da una holding che garantisce la governance del sistema e i servizi comuni. Catapult ha cambiato la percezione in UK dell’importanza della manifattura, e ha posto le basi per considerare l’industria 4.0 non solo tecnologia, ma capacità di usarla.

 

Annalisa Magone