Editoriale – numero 84 – 2022

Che dire? Ci voleva proprio. Dopo la pandemia, o forse è ancora meglio dire “durante una pandemia”, la guerra. Dal punto di vista strettamente industriale, il passaggio all’età contemporanea ha causato un’inversione del ruolo della guerra nello sviluppo: se, fino alla Seconda Guerra Mondiale, le guerre hanno avuto, come effetto collaterale, un decisivo progresso tecnologico, basti pensare allo sviluppo del motore a reazione o a razzo, dalla guerra di Corea in poi la guerra è stata solo e sempre una voragine in cui sono state gettate vite umane, esistenze intere e anche quantità incalcolabili di materie prime, risorse e potenzialità economiche. La guerra in Ucraina si inserisce perfettamente in questo filone di insensata distruzione: se, secondo un’antica definizione, la guerra è la versione a livello di stati nazionali dell’aggressione a scopo di rapina, in questo caso, qualunque sia il bottino finale, ci sono forti dubbi che il gioco valga la candela, viste le quantità di vite e risorse inesorabilmente gettate nel calderone del conflitto.

Secondo le stime del National Institute of Economic and Social Research la Guerra in Ucraina costerà al mondo un punto di PIL, circa 1000 miliardi di dollari. Solo all’Italia le sanzioni alla Russia costeranno 22 miliardi di euro per il calo delle esportazioni, soprattutto per quanto riguarda gli articoli di lusso, le macchine utensili e i prodotti teconologici senza contare le difficoltà dovute agli aumenti delle materie prime e dell’energia. Sono oltre 300 le aziende italiane che intrattengono rapporti commerciali con la Russia, 14esimo partner commerciale al mondo. Per quanto riguarda la Comunità Europea, il valore delle merci esportate è di 79 miliardi di euro, mentre le importazioni ammontano a 95,3 miliardi. Nonostante le sanzioni seguenti alla guerra nel Donbass e all’annessione della Crimea, nel 2014, che hanno causato una riduzione delle esportazioni russe di oltre 50 miliardi di euro annui tra il 2010 e il 2020, l’Unione Europea rimane sempre il primo partner commerciale della Russia.

Insomma, se per tutto il XIX e parte del XX secolo per una buona parte dell’industria la guerra poteva essere una risorsa di sviluppo, incremento del fatturato e della tecnologia, nel XXI secolo è diventata un pessimo investimento, tranne che per le aziende della difesa, e anche per loro fino a un certo punto. Troppo alti, infatti, sono i costi di una guerra perché si possa pensare che duri tanto a lungo da renderla un ottimo affare: sul breve termine, la pace è molto più redditizia. Ora che il peggio della pandemia sembrava essere passata, un conflitto ristretto dal punto di vista militare ma su scala globale per quanto riguarda le conseguenze economiche rischia di soffocare sul nascere la ripresa che, complice i provvedimenti di NextGenerationEU, stava assumendo caratteri decisamente marcati, con un PIL in crescita tra il 4 e il 7% nell’area Euro. Poco più di un mese di conflitto ha fatto precipitare le stime attorno al 2%, anche a seguito degli aumenti spropositati dei costi dell’energia. Stretta tra il calo dell’export e l’aumento dei costi, la manifattura si dibatte in cerca di soluzioni che ancora non si vedono all’orizzonte: se, da una parte, il costo del gas già a gennaio era aumentato per l’industria del 423% rispetto al 2018, dall’altra il 2021 aveva fatto segnare una cifra record, tanto a livello europeo quanto a quello italiano, con un recupero rapidissimo rispetto alla crisi nera del 2020.

E ora? Ora si tiene duro: i contratti siglati nel 2021, evasi nel primo e secondo trimestre 2022, non potranno per forza di cose tenere conto dell’aumento dei costi di produzione per le macchine utensili. E anche per il futuro l’adeguamento dei prezzi ai nuovi costi, sia della materia prima, l’acciaio, prodotto da aziende energivore come le acciaierie, sia dell’energia utilizzata per la produzione, non appare una strada praticabile, anche per le grande concorrenza sul mercato che fa leva proprio sul prezzo finale. Si tiene duro e si spera per il meglio: le corsie della Tube di Dusseldorf, ne siamo certi, saranno tutto un mormorare: chi troverà la soluzione a quest’equazione con troppe variabili si sarà assicurato un posto nel mercato del futuro.